A TU PER TU CON LE STORIE
Lorenzo Moreni
L’incontro con il mio psicanalista
Ogni volta che mi accordo con qualcuno, non importa se per questioni di lavoro, sentimentali o di altra natura, e non viene rispettato l’orario concordato, mi arrabbio da morire, è una questione di rispetto, di buona educazione, direbbe Maria in una circostanza simile. Ci sono persone che su questo paradigma maturano vere e proprie ossessioni. Davide ad esempio: se deve presentarsi per un colloquio di lavoro ad un certo orario, in un luogo che non conosce, per prima cosa, due giorni prima, imposta il navigatore per verificare i tempi di percorrenza, poi riflette sul traffico: recarsi in città il mattino o il pomeriggio non è la stessa cosa. Il giorno seguente fa una prova concreta in modo tale da avere tutto sotto controllo ed evitare il rischio di giungere in ritardo. Poi ci sono gli imprevisti, un incidente, per esempio, quindi meglio partire mezzora prima, non si sa mai, concluderebbe. E così, tutte le volte, impaziente, si costringe ad attendere almeno un’ora rispetto all’appuntamento prefissato. Quando mi recavo a Bolzano per incominciare un lavoro formativo fissato per le 9 del mattino, entrare nel salone adibito alla formazione alle 8,55 senza aver sistemato tutto il materiale e le strumentazioni per incominciare significava essere già ai limiti del ritardo; si inizia alle nove, rimarcava l’organizzatrice del corso; qui non esiste il quarto d’ora accademico? Sottolineavo io con una certa ironia. Per spiegare quanto il rapporto con il tempo sia relativo porto sempre come esempio una scena che ho osservato diverse volte a casa di una famiglia di amici di Castelvetrano, in provincia di Trapani. Fofò, per dire alla moglie che intende rimanere fuori casa per poco tempo, senza essere ancora uscito, si esprime così: Ninni, sto per tornare. Se poi ci spostiamo ancora più a sud, oltrepassando il mar Mediterraneo, l’appuntamento assume una connotazione non ben definita e viene sempre salutato con una parola: inshallah (se Dio vuole).
Nonostante ciò io sono una persona puntuale, persino troppo, e quando mi accordo per un appuntamento, solitamente, lo mantengo con precisione. Pertanto, alle 9 del mattino, come concordato, stavo lì con l’indice della mano destra puntato sul pulsante del citofono della casa del mio psicanalista.
Avevo chiesto di partecipare a degli incontri analitici di gruppo perché stavo male. Mio padre era malato di cancro e, i medici, gli avevano prognosticato non più di sei mesi di vita. Questa era la ragione del mio malessere.
Mi guardo attorno per vedere se ci sono altre persone che, come me, sono lì per partecipare all’incontro. Nessuno. Per un istante penso di essermi sbagliato. Attendo qualche minuto e poi, con un po’ di esitazione, premo timidamente il pulsante del citofono; nessuna risposta. Avrò capito male? ma no, me lo sono persino appuntato. Per verificare estraggo dalla borsa l’agenda personale e in effetti è segnato per oggi alle 9. Mi faccio coraggio e riprovo, questa volta in modo più deciso e infatti ecco la risposta:
Si!
Pare il tono di una presenza lontana.
Buongiorno, mi affretto a dire, sono Lorenzo sono qui per… Mi interrompe come se in quel preciso istante si sia risvegliato prendendo bruscamente contatto con la realtà:
Ah sì Lorenzo, sei già arrivato, scusami, ma che ore sono? Ti apro, entra, accomodati, mi preparo e arrivo.
Non ero mai entrato in quella casa. Non era uno studio, ma nemmeno una casa solo per viverci. Egli, utilizza lo spazio personale trasformandolo, di volta in volta, in funzione delle necessità. Il pavimento è completamente ricoperto da una moquette grezza di fibra di cocco con un buon odore e le pareti sono avvolte da un’infinità di libri. Un paio di tavoli di legno sono carichi di tesi di laurea, taccuini e appunti vari, alcuni cuscini colorati di diverse dimensioni sono sparsi sul pavimento, diversi punti luce sono collocati in modo poco convenzionale. Molti oggetti: statuette, fotografie, maschere trovano spazio sul ripiano delle librerie. E poi una poltroncina e una sedia a dondolo. Tutto è pervaso da una luce naturale favorita da due ampie vetrate completamente prive di tende, una che si affaccia sul giardino e l’altra sulla val d’Adige.
Accomodati, hai fatto colazione? Senza attendere risposta aggiunge: accomodati in cucina che la facciamo insieme
La voce giunge dal bagno, lo capisco dai rumori degli scrosci d’acqua. C’è pure il sottofondo di una trasmissione radiofonica. Mi piacciono le case con la radio accesa, molto meno, anzi per niente, quelle dove acceso è il televisore.
La cucina è essenziale, ordinata con un profumo di spezie tipico delle case dove si consumano principalmente verdura e cereali. Qualche padella in vista agganciata su una griglia a muro, un tavolo tondo di marmo e una cassettiera di legno con una vetrinetta. In bella vista diverse confezioni e qualità di tè. Un piatto di frutta fresca, due barattoli di frutta secca appoggiati sul ripiano della cucina e un frigorifero. Anche questo spazio è ben illuminato, una porta finestra si affaccia sul porticato adiacente il giardino.
Allora Lorenzo, ben arrivato, mi dice sorridendo avvicinandosi alla porta della cucina. Mi metto una camicia e arrivo.
Nel frattempo prende un bollitore, lo riempie d’acqua, accende il gas e lo appoggia sul fornello.
Senti, che tazza preferisci? anzi sceglila tu, apri lo scaffale e prendi quella che più ti piace. Una decina di tazze colorate, una diversa dall’altra, ben ordinate, proprio come i libri. Prendo quella marrone, la sento calda e adatta a me. Intanto si fanno le 9 e mezza senza che nessuno suoni il campanello.
Che tè preferisci, verde o nero?
Io non conoscevo le diverse varietà di tè, ma invece di chiedergli quale fosse la differenza rispondo: verde. Me ne guardai bene dal dire che per me uno vale l’altro. Nel frattempo Gabriel, questo il nome del mio psicanalista, affetta una pagnotta di pane nero per abbrustolirlo sulla piastra.
Non ero abituato a rimanere a tu per tu, per tanto tempo, con un professore universitario, per di più a condividere la colazione. Non vedo l’ora che arrivi qualcuno in modo da non essere solo io il centro della relazione con lui. Sono preoccupato che mi chieda il titolo dell’ultimo libro letto. A quel tempo leggevo pochissimo e a fatica. Ero preoccupato di svelare la mia ignoranza in proposito e di non essere in grado di sostenere la relazione. Niente di tutto questo. Mentre condivido, con un po’ d’ansia in corpo, la ricca colazione addolcita da una gustosa confettura, incomincia a spiegarmi il motivo di far abbrustolire il pane, l’importanza di mangiare abitualmente frutta secca. E così continua su tanti altri argomenti. Mi versa un’altra tazza di tè, mi mostra le numerose teiere provenienti dalla Cina e questa diviene l’occasione per raccontarmi di sua figlia che, da anni, vive e lavora come giornalista, inviata per una rivista importante di cui non ricordo il nome, nella Repubblica Popolare Cinese. E così si fanno le 10,15.
Di punto in bianco mi chiede:
Lorenzo, tu sai giocare a ping pong?
Questa proprio non me l’aspettavo!
Certo, mi piace, anche se non ricordo il tempo di stringere con la mano una paletta.
Allora fai una cosa intanto che riordino la cucina, anzi vuoi ancora una tazza di tè? No, grazie. Ok, allora vedi che sotto il porticato c’è un tavolo da ping pong, aprilo che facciamo una partita.
Da non credere: uno va dallo psicanalista per affrontare un insieme di paure e si trova a giocare a ping pong, perlopiù proprio con lo psicanalista. Gabriel, lo venni a sapere col tempo, aveva partecipato a un campionato regionale di questo sport, lo notai subito che era bravo. Comunque anch’io mi difendo bene.
Quando batto nascondo la palla tra la mano e la paletta in modo da non permettere all’avversario di vedere la direzione della mia battuta e poi cerco continuamente di spiazzarlo guardando da una parte del tavolo e orientando, con un gioco di polso, la pallina dall’altra. Più che un giocatore d’attacco sono uno da difesa. Gabriel ci mette poco a capire il mio stile, intanto mi dice che le mie battute non sono regolari perché la pallina va lanciata in alto prima di colpirla e non nascosta e quando vede che mi ritiro e riparo nelle mie sicurezze incomincia con tagli e schiacciate che fatico a controllare.
Ci sono alcuni giochi, in base alla tecnica che si utilizza, alla strategia che si adotta, che, durante la competizione, svelano il modo di essere delle persone. Se si osservano con attenzione i giocatori impegnati durante la partita di ping pong, è come osservare uno specchio capace di riflettere il carattere degli stessi.
Mi immergo totalmente nel gioco perdendo il senso del tempo fino a quando, all’alba delle 11,30, suona il campanello. Sospendiamo la partita. E’ Alessandra, una psicologa che conosco, anch’essa venuta per un incontro analitico di gruppo: Gabriel l’attende alla porta, l’abbraccia affettuosamente e poi le dice: se vuoi c’è ancora del tè caldo, aspettiamo gli altri e poi incominciamo.
Nel giro di mezz’ora arrivarono tutti, otto persone (una musicista, una psicologa, uno psicologo, un’ostetrica, una studentessa, un’assistente sociale, un’infermiera ed io) Ognuno si accomoda dove vuole, chi sdraiato, chi seduto a terra, chi sulla sedia a dondolo in attesa che Gabriel giunga da noi per incominciare il lavoro.
Arrivo subito, vado in bagno e poi incominciamo.
Io ero bravo a fare il paziente, molto meno a stare in una relazione di reciprocità. Ecco, è proprio questo il punto: tra tutte le cose che imparai durante gli incontri di gruppo, che potevano continuare anche l’intera notte, l’apprendimento maggiore lo acquisii, prima di ogni incontro, sostando, per alcune ore, nella sua casa, in relazione solo con lui. Il suo continuo posticipare, ben compreso dagli altri corsisti, mi permise, per tutto il tempo della mia formazione, circa due anni, di godere, nutrendomi, della relazione con Gabriel, delle colazioni, del tè di cui compresi le differenze e delle piacevoli e combattute partite a ping pong. Cosa mi sarei perso se avessi letto il suo comportamento come mancanza di rispetto nei miei confronti! In fondo, sia io che lui non siamo venuti meno a noi stessi. Io ho continuato ad essere puntuale, alle 9 del mattino ero lì con il dito puntato sul tasto del citofono del Prof. Gabriel Maria Sala. Mentre lui, assonnato rispondeva: sì, Lorenzo entra pure, accomodati, mi preparo e arrivo.